Poco meno del 10% dei malati di Covid in Friuli Venezia Giulia è finito in ospedale. Detto in numeri, i ricoverati sono stati 10072 sul totale di 106770 positivi al virus. Basterebbe questo dato – illustrato dal professor Carlo Tascini durante la seduta della III Commissione presieduta dal leghista Ivo Moras – per comprendere l’importanza delle cure domiciliari, il tema al centro dell’audizione di oggi nell’aula del Consiglio regionale, nel corso della quale Riccardo Riccardi,
vicegovernatore con delega alla Salute, ha aggiornato i consiglieri sull’andamento della campagna vaccinale che, al momento, ha coperto il 20% della popolazione Fvg con la doppia dose e il 43% con la prima dose.
L’audizione era stata richiesta da Simona Liguori (Cittadini) il 22 marzo scorso, in una fase critica della lotta al virus, per chiedere di rafforzare le cure a casa e sollecitare – come la consigliera ha ricordato anche nel suo intervento in aula – una tempestiva presa in carico del paziente. Aspetto sottolineato
pure da Andrea Ussai (M5S), che ha chiesto informazioni specifiche sul tema del monitoraggio dei malati a casa e sull’utilizzo del plasma per immuni come cura. Mentre Walter Zalukar (Misto) ha lamentato una “carenza di coordinamento e di linee guida per le Usca impegnate nella terapia domiciliare” e l’assenza di un protocollo organizzativo specifico.
Furio Honsell (Open) ha posto invece il tema delle infezioni da Covid contratte negli ospedali, prendendo spunto da un’inchiesta giornalistica inglese e invocando la diffusione trasparente di
questi dati da parte delle autorità sanitarie. Un altro consigliere, Antonio Lippolis della Lega, ha invece chiesto dettagli sulla terapia con monoclonali.
Riccardi ha dato la parola ai professionisti della sanità prima di trarre le sue conclusioni. “Il protocollo regionale sulle cure domiciliari – ha inquadrato Gianna Zamaro, al vertice della direzione Salute – porta la data del 1 aprile ed è stato condiviso con i professionisti, i sindacati e l’Ordine dei medici che hanno fornito i loro suggerimenti”.
È stato poi Tascini, infettivologo a capo della struttura dell’Asufc, a illustrarne i contenuti con una serie di slide che hanno preso in esame i sintomi più frequenti, il decorso della malattia (“Solo il 10 per cento dei pazienti è rimasto sintomatico anche durante la seconda settimana”), l’utilizzo dei test molecolari e antigenici e le prescrizioni per i pazienti a casa, tra le quali il controllo della temperatura due volte al
giorno e della saturazione 4 volte al giorno.
Il protocollo, ha spiegato ancora Tascini, stabilisce i parametri per il ricovero in ospedale (nel caso ad esempio si riscontri una ipossiemia con valori inferiori al 92%) e l’utilizzo delle terapie. “La malattia ha due fasi – ha spiegato il professionista – : virale nei primi 7 giorni, poi infiammatoria.
Servono quindi terapie differenziate, e non bisogna somministrare cortisone nella prima settimana perché può essere molto deleterio: su questo c’è stata un’ampia discussione tra noi”.
Tascini si è soffermato anche su terapie alternative come quella a base di monoclonali (da utilizzare nella fase iniziale), Remdevisir (utile solo nei casi meno gravi), idrossiclorochina (antimalarico sconsigliato dall’Aifa perché può provocare aritmie). “Terapie innovative come quella del plasma iperimmune possono essere prescritte chiedendo il permesso al Comitato etico”, ma a volte i tempi di 3-4 giorni necessari per avere una risposta stridono con la necessità di curare il paziente nei primi giorni di malattia.
Sono intervenuti da remoto anche gli altri due responsabili delle malattie infettive. Massimo Crapis di Asfo ha sottolineato i numerosi incontri con i medici di medicina generale, sottolineando però che “spetta a ogni singolo medico di base mettere in pratica le indicazioni, e io non posso sapere se tutti
i 200 professionisti del Pordenonese siano andati a casa dei pazienti seguendo le nostre raccomandazioni”. Roberto Luzzati, di Asugi, ha insistito sullo stesso tasto: “Molti dei medici di base
sono collaboranti, altri meno”. E ha risposto a Honsell sui contagi in ospedale: “All’inizio ce ne sono stati molti, non solo in Italia ma in tutti i Paesi, poi abbiamo capito come ridurre la contagiosità del virus e abbiamo ridotto il numero dei cluster”.
Affrontato anche il tema della sindrome post-Covid. “Il 30% di chi guarisce ha ancora dei sintomi”, ha detto Luzzati. Mentre Tascino ha parlato di casi più frequenti nelle donne, in chi ha avuto forme gravi o è stato ricoverato in Terapia intensiva. La fatica e l’anosmia sono gli strascichi lamentati più spesso da chi ha superato la malattia.
All’audizione hanno preso parte anche i direttori sanitari.
Andrea Longanesi di Asugi è convinto che non serva il protocollo organizzativo invocato da Zalukar, ma che occorra “curare le interfacce, i collegamenti tra i vari livelli assistenziali, il passaggio da ospedale a territorio. E l’infermiere di continuità può svolgere un importante servizio”. Laura Regattin, direttore
Asufc, ha sottolineato il ruolo importante dei medici Usca, mentre Michele Chittaro (Asfo) ha osservato che la “metodologia di presa in carico dei pazienti è cambiata nel tempo, a causa dell’esplosione del numero di contagi”.
“Abbiamo numeri da zona bianca, ma questo non deve diventare un liberi tutti”, ha ammonito Riccardi nel suo intervento finale.
“Ci sono state criticità, ma il sistema ha tenuto e il coordinamento c’è stato”, ha evidenziato il vicegovernatore, che ha voluto lanciare alcuni messaggi: “Il primo è che chi poteva stare a casa è stato tenuto in casa, in ospedale è finito solo chi doveva andarci. Il secondo è che dobbiamo fare ancora un
percorso importante per gestire al meglio la catena ospedale-territorio. Il terzo è che le dinamiche post-malattia sono variegate, non possiamo dare risposte standardizzate. Resta poi il grande tema del rapporto tra sanità pubblica e medicina generale”.